Bella chi?

Il volto e il destino

Salgo in metrò e mi aggrappo per un pelo al primo sostegno disponibile mentre il vagone inizia a scartare e sculettare verso la stazione successiva. Il conducente deve appartenere alla specie dei cow-boy da rodeo, quelli che guidano il treno come se fosse un cavallo imbizzarrito da domare con le cattive (ci sono anche gli altri, “gli uomini che sussurrano ai treni” e li conducono morbidamente, frenando con dolcezza, ma si stanno estinguendo).

Tra i sussulti e gli strappi, lo sguardo scivola alla donna seduta di fianco alla porta, nel posto più ambito, quello all’estremità della fila dei sedili: è silenziosa e molto bella, ma ha sul viso segnato dall’età una smorfia di disgusto, resa eterna dalle rughe di espressione. Qualcosa che scende dall’alto verso il basso, un sistema formidabile di grinze di condiscendenza che urlano senza voce “Che schifo!” ad ogni oggetto sul quale lo sguardo della signora si posa.

“Datti una calmata”, dico a me stessa “Magari è una donna gentilissima che ha avuto solo la sfortuna di invecchiare male”.

Do una fugace occhiata – autopunitiva – alla mia immagine riflessa nel vetro: il mio viso sembra ormai un mare in tempesta, tutto segnato dalle occhiaie e dalle borse incancellabili sotto gli occhi.

“Nemmeno tu, tesoro mio, sei un fiore” mi dico.

Però, i segni sul mio volto e su quello di molti altri intorno a me non indicano disgusto. La signora, invece, ha dipinta sui lineamenti curatissimi un’avversione che non mi lascia in pace.

I miei figli mi dicono che ho una ruga di meraviglia sulla fronte, e hanno ragione: sollevo talmente spesso le sopracciglia che ormai la mia pelle cinquantenne si è abituata al gesto e lo previene, manifestando il mio stupore con un segnaccio permanente sulla destra. D’altra parte la meraviglia è il mio mestiere, o quasi, me ne occupo da anni e ho cominciato a studiarla per cercare un senso allo stupore frequente che mi è sempre toccato di vivere. Sono fatta così e la mia faccia lo dice prima delle mie parole.

Giro lo sguardo nel vagone e vedo volti segnati dalla fatica, dalla paura, molti gonfi di sonno. Qualche rigidità muscolare da botulino, un paio di bocche rifatte. Alcuni visi sereni. Pochissimi sorrisi.

Torno sulla signora… Disprezzo. La sua espressione è ferma su quello.

Che cosa le sarà successo per inchiodarle il viso in quell’espressione? Quali avventure avrà vissuto nelle sue relazioni con il marito (ha la fede al dito), o forse con i figli, gli amici, i colleghi…

Penso al mio lavoro con i bambini piccoli, a quanto sappiamo dopo la scoperta dei neuroni specchio: il volto che si offre loro, con la sua espressività, gioca un ruolo fondamentale nella percezione delle emozioni e nella loro successiva elaborazione. Un bimbo a cui sorridi, risponde con il sorriso e impara la gioia in quell’istante. Un bimbo a cui mostri un volto corrugato, imita il gesto allo stesso modo e impara la perplessità, perché il corpo parla e insegna. Cosa imparano i bimbi che si trovano di fronte volti sempre segnati dallo scontento, o dal disprezzo? Ma anche volti imprigionati dall’ansia e dalla fretta, o arrabbiati, o inquieti?

Il treno frena in modo spettacolare sbalzandomi direttamente sul giornale del signore che mi sta accanto. La prima pagina, sulla quale rovino, riporta una notizia che mi incanta: i Lego non sorridono più come una volta. Uno studio neozelandese rileva che la percentuale dei volti felici nei noti pupazzetti danesi è scesa al di sotto del 50%.

Mi ricompongo, chiedo scusa al signore e al suo giornale e mi appresto a scendere. Nel sedile vicino alla porta, la signora non c’è più. Al suo posto si è seduto un ragazzino che ascolta musica con le cuffie, il viso acerbo e inespressivo. Guardo la sua pelle liscia e penso che tutti i suoi giochi sono ancora da fare. Gli faccio gli auguri mentalmente, mentre scendo di corsa, prima che il treno sgroppi via verso il suo destino.